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MARZIO DALL’ACQUA

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MARZIO DALL'ACQUA


Mumo preghiere bambine

Pittura dall’anima quella di Mauro Coppola: affioramento come di sorgiva silente, protetta e nascosta dal verde, da una vegetazione diversa all’intorno, d’altri climi, d’altre altezze, che sembra sempre uguale, eppure muta, si trasforma, gorgoglia come l’acqua sempre fa. Mauro Coppola è dunque come una polla, quasi ignoto a se stesso, nel momento in cui dipinge, tutto
intento com’è a cogliere le variazioni di una interiorità che sotto, a profondità geologiche dell’inconscio, ribolle, urge e pressa per emergere. E mescola dentro sé linguaggi, stimoli, suggestioni, che talora sconfinano nel gioco, nell’accostamento inusitato, nella fuga nella coscienza che nasconde il suo turbamento dietro al sorriso; talora divengono lievi, aerei, piumati a volare, gattici di visioni, insieme liberatorie ed ossessive nella loro icasticità, che significativamente egli paragona ad haiku e che hanno bisogno della parola per dilatarsi, ma anche nascondersi ed oscurarsi. Ed infine Mauro Coppola ha frequentato la figurazione, un verismo magico, sospeso con venature surreali, suggestivo ed insieme senz’aria, senza atmosfera. Pittura che sfiora la pelle del reale ed insieme si immerge appena nel flusso sottostante, bagnando la tela di colori allusivi, evocativi come d’altri mondi e d’altre opere.
Ancora un modo per nascondersi, per rallentare l’ansia e l’urgenza del dire, per fare ordine, per un controllo intellettuale a raffrenare l’urgere del dire, per nascondersi dietro alle visioni.
Oppure, lasciandosi andare, Coppola inventa esplosioni, percorsi astratti, geometrie di caleidoscopie impazzite ed instabili, come nel ciclo intitolato “Entropia”.
Un percorso dunque tortuoso, apparentemente senza meta, se si rimane alla sperimentazione di materiali e di immagini, alla ricerca tesa ed innovativa che sono alla base della storia artistica di Coppola, eppure ogni quadro è una tappa, una conquista che oggettiva, ferma impastandoli di colori, gli stimoli filtrati da un altrove che chiamiamo anima. Con stupore e sofferenza, certo.
Senza però abbandono totale, senza naufragare nell’indicibile, perché Coppola desidera impossessarsi dei frammenti di sé, farne pagine colorate di un diario interiore ed intimo, ma anche comunicare con gli altri, condividere emozioni e suggestioni. Le sue opere non possono fermarsi allo sguardo, alla carezza estetica ed estatica, ma richiedono, per sciogliere il nodo che le avviluppa, che anche lo spettatore sia disponibile a muoversi parallelamente nella propria interiorità per trovare assonanze e dissidi.
Questo è ancora più vero per il ciclo intitolato “Mumo preghiere bambine”. Riaffiorano i colloqui infantili con Mumo, dio privato, sogno, presenza ed insieme assenza con il quale parlare, chiedere sicurezze e consolazioni, giocare ai pensieri e alle parole: una entità che cresce per accumulazioni, per assemblaggi, senza per questo prendere altra forma che lo svettare in un cielo livido ed indifferente. Una entità che sembra raccogliere, attrarre a sé, condensare tutti gli oggetti, tutte le apparenze, tutte le sostanze in un accumulo montuoso che addensa in mutevoli e solidificate prospettive, dai colori freddi dell’inverno, dell’altitudine, senza ebbrezza, con distacco quasi, come presagio di lontananza. Il processo entropico dell’esplosione dinamica ancora in atto, dalla dimensione gassosa fermentante, ha proceduto e si sta risolvendo in questo affastellarsi del reale, o meglio dei suoi frammenti, su se stesso, in questo congelamento, percorso da accese cromie. Un processo sembra concludersi nell’indifferenza di cieli ed atmosfere che mantengono la mutevolezza delle emozioni. È come un allontanarsi, un abbandono, ma noi sappiamo che la discesa agli Inferi di Mauro Coppola è continuata, senza soste, anzi scendendo ulteriormente. Diventa così chiaro che quest’artista schivo, che si definisce “autodidatta” e pittore “per piacere” è in realtà, nella sua ricerca, sincero come pochi, coraggioso, deciso anche se sembra percorrere strade tra loro diverse e contrastanti, guidato però da un’interiorità che gli illumina il cammino e che richiede schiettezza e senso del rischio. Coppola è cosciente che “non uno itinere – come scrisse Simmaco in polemica con Ambrogio vescovo – potest perveniri ad tam magnum misterium”: “non con una sola via si può attingere ad un così grande mistero”.

Parma, il giorno della Repubblica 2009
MARZIO DALL’ACQUA
Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma

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Mauro Coppola: in viaggio con Mumo

"Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes,
L’univers est égal à son vaste appétit".

Charles Baudelaire
Le Voyage

Nel suo laboratorio privato, segreto, Mauro Coppola prosegue in vitro il suo viaggio con Mumo, il dio bambino, eco delle preghiere che rivolgeva nelle ansie e nelle solitudini infantili. Che ogni quadro sia una pagina di diario risulta ancor più vero dalle ultime opere inedite realizzate, nella febbre che coglie ogni artista dopo una personale, dopo la mostra di Ferrara alla fine di giugno. Pochi mesi, anzi poche settimane, eppure il flusso creativo, la polla oscura dalla quale emergono immagini/visioni, sorgiva di incantati colori, pulsano con ritmi nascosti a far esplodere fermentanti misteri che si fissano sulla tela. Ed in queste ultime recenti opere sembra che Mauro Coppola, uguale a se stesso, coerente e sinceramente autentico nella ricerca, regga un timone, abbia una meta, una stella polare che traccia e guida il suo andare, meno casuale, meno erratico. C’è anche meno angoscia, un più contenuto senso di smarrimento, di spaesamento, che ha lasciato posto ad uno stupore, ad una meraviglia più cantata, al limite della felicità. Mauro Coppola segue una rotta e come gli autentici viaggiatori, innamorati del partire, dell’andare, come scriveva Baudelaire, sono “coeurs légers, semblables aux ballons” ed i loro desideri “ont la forme des nues”. La forma delle nuvole, dunque, nelle opere di Mauro Coppola? Sì, ma di un cielo rivoltato, che si specchia in una fonte opaca che amalgama quello che affiora dal profondo, in un sussultare, in un sovvertimento e mescolamento continuo, con l’esterno, con il reale, in un trapasso ambiguo e difficile da decifrare, che solo occasionalmente sembra liberare una apparizione intellegibile. Coppola la salva, allora, “croquis pour votre album vorace”, direbbe ancora Baudelaire, e lo schizzo, l’abbozzo – “il croquis” – diventa quadro che è insieme fissità di sguardo, registrazione di visione, documento di un trascorrere eidetico registrato però con qualcosa di precario, di instabile, di mutevole, nella sua fragilità e casualità fenomeniche. Ma, rispetto a prima di Ferrara, c’è una maggiore confidenza, un più sicuro abbandono alla visione, un incanto che ha meno bisogno di ricorrere a simboli nascosti, che più liberamente e felicemente si affida al gioco, all’assemblaggio delle figure e dei colori.
Le forme escono dal cuore del quadro in un sottile e non risolto rapporto tra implosione ed esplosione, senza sfuggire, come prima, verso l’alto, verso i lati, senza spegnersi in algidi cieli.
E se compaiono simboli essi hanno l’indecifrabile allusività dei sogni; se si mostrano figure la loro è una messa in scena, un insistito gioco di assonanze e di identificazioni di quelle che potrebbero apparire altrimenti solo ambre colorate fluttuanti.
Il tema del viaggio, riportato ad un pittore, fa pensare a Watteau, a L’imbarco a Citera. Citera l’isola sulla quale Venere neonata dal mare sbarcò toccando la prima terra. Ma Coppola non è artista di mito. Il dio bambino Mumo è chiuso in un balletto interiore fatto di baluginamenti, di apparizioni, di suoni, di ricordi che si mescolano con anticipazioni, di un inconscio che manipola il reale in un continuo divenire tra sospensioni ed accelerazioni, per cui Citera non è meta né plausibile né appetibile. Dunque meglio “Icaria”, per rimanere con Baudelaire: “Notre âme est un trois-mâts cherchant son Icarie”: terra insieme nota, materna e sconosciuta, che non esiste su alcuna mappa, alla quale non guidano portolani, ma percorsi interiori, che apparentemente non gonfiano le vele del trealberi dell’anima, nel mar dei Sargassi della coscienza, non dispiegano paesaggi mutevoli, sono eterni ritorni. Solo le opere, diario di bordo di una navigazione affatto privata, permettono di colmare le distanze, disegnare i giorni e gli approdi, i nodi percorsi, l’approssimarsi della meta. E sono le opere che ci dicono che Mauro Coppola è in cammino e che la ricerca della sua Icaria si è venuta meglio definendo e che il trealberi della sua anima è al largo, accompagnato dal sorriso infantile di Mumo.

Parma 2009
MARZIO DALL’ACQUA
Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma

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Sempre più Mauro Coppola viene ammantando le emozioni che sa trasformare in forme e colori accesi, appassionati, in invenzione pittorica, in costruzione estetica sapiente e controllata.
Potrebbe sembrare il trionfo della pittura come “ars naturans” che compete con l’originaria immediatezza nativa di affioramenti onirici ed insieme emotivi, infantili, quali persistenze e intreccio al presente.
Certo rimane la particolare distanza che Coppola frappone fra sé, fra l’occhio di chi guarda e l’orizzonte dell’opera.
Tutto quello che appare, che si distende sulla tela avviene come in profondità, come in lento avvicinamento da un fondale.
In primo piano solo detriti marginali, relitti di una profondità ambigua che può essere l’avvicinarsi e l’allontanarsi di una bufera emotiva esplosa, fuochi d’artificio del cuore che passano attraverso la contaminazione con l’espressionismo e in alcuni cicli e opere ancor più con il futurismo, entrambi rivisitati nella loro capacità di far emergere l’anima sottesa al reale; il fantasma affiora tra caos, disfacimento, svelamento, illuminazione, racconto solo per gli occhi, solo nell’impasto delle pennellate che graffiano, si stendono, si stemperano, si ritagliano spazi per viaggi nell’ignoto ed insieme si aggrumano, in modo inaspettato, in figure leggibili che cercano vita e lottano per non sparire.
E’ il trionfo della precarietà, del provvisorio, ma anche, nonostante tutto o contro tutto, del persistere, del continuare.

Parma settembre 2010
MARZIO DALL’ACQUA

Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma

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Mauro Coppola nasce a Napoli nel maggio 1953, si trasferisce a Ferrara nel 1982 dove vive tutt’ora.
Notaio di professione, fin da adolescente si è dedicato al disegno e alla pittura.
Solo negli ultimi anni ha esposto i suoi dipinti in diverse occasioni con personali a Budrio (BO), Ferrara, Pesaro, Pieve Torina (MC) e Gualtieri (RE).
Le sue opere sebbene realizzate con tecniche di vario genere dall’olio all’acrilico, dalla vernice alle materie più diverse quali colla, stucco, sabbia, cartapesta, sono percorse da un filo conduttore e rivelano una personalità complessa ma organicamente coerente.
Costante è la ricerca di una visione non convenzionale della realtà che, grazie all’accostamento di forme di colori in movimento “ricrea” oggetti e personaggi dell’anima che assumono connotazioni personalissime e originali.
Sebbene personali e originali le sue opere rientrano nel solco della tradizione ora espressionista ora realista e futurista con richiami alla metafisica.
C’è sempre, sottostante ai dipinti di Mauro Coppola, la ricerca di contenuti inconsci che vengono portati alla luce con un linguaggio scandito da armonie di colori usati in purezza percorrendo itinerari tra caos e speranza.
Onirico e nel contempo vigile, lascia l’ultima parola alla sua pregnante tavolozza.

Parma, dicembre 2010
MARZIO DALL’ACQUA
Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma

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La mirabile voce dello sguardo

"nonostante la nostra generazione viva con euforia l'epoca dove la tecnologia sembra dominare e trionfare su tutto,pensiamo ancora con Leonardo che l'arte continui ciò che la scienza comincia, e che introduca a un concetto di spazio esprimibile solo con una parola: infinito".

Claudio Parmiggiani, 2003

Un ossimoro per designare questa stagione, breve come sono i momenti di ricerca di Mauro Coppola, ma intensi, ricchi di straordinarie invenzioni, complicati e sotterranei rimandi, che lo vede lavorare sul tema dell’occhio di vetro, della lente, dell’obbiettivo, del guardare ed essere guardati, quasi spiati, da sguardi che non si lasciano trapassare. Un cristallo infatti ripercuote l’immagine che gli sta di fronte, ma non permette all’occhio umano di vedere oltre i riflessi, le ombre, le luminosità, il raggiare e sfavillare di quello che è solo un rispecchiamento esterno, assorbito come ed annullato dalla profondità oscura dell’al di là, cuore misterioso ed insondabile.
La lente è essa stessa un ossimoro dello sguardo, che richiede e richiama reciprocità, mozioni di sentimenti, comunicazioni e scambi, mentre raccoglie solo, registra o indifferente ignora, così negando di fatto la realtà che le sta di fronte.
Mauro Coppola ha esplorato questo mondo dell’emergere in uno spazio circolare, spiraliforme, senza vera dimensione, senza un posare o scaturire, come ulteriore ricerca dopo le diverse fasi che lo hanno portato ad una astrazione ricca di riferimenti colti, ma anche punteggiata, quasi cifrata, da presenze figurative lillipuziane, che rendono ancora più instabile ed evanescente la costruzione di questi andamenti concentrici, togliendo loro aria e vita, dilatandoli in una immensità ripetitiva dinamica, in un moto continuo, a mimare pianeti ed universi.
Già in altre opere, in precedenza, Coppola si era addentrato ad esplorare spiagge di mondi senza vita, rutilanti nel vuoto, corrosi da accesi colori di fiamme o ghiacci candidi, generati all’interno della materia e non proiezioni di luci inesistenti provenienti da direzioni fantastiche. Ruote di materia rarefatta, ma addensata, che si muovono a grandi distanze e in estensioni senza misura. Macrocosmi che potrebbero essere microcosmi, che possono muoversi con impaccio in un dilatato universo od essere invece racchiusi in una goccia d’acqua sotto un microscopio: lenti osservate attraverso lenti. Rimane però l’impressione di questo sguardo cieco, di questo occhio magico senza fascino e magia, inquietante e freddo, impenetrabile e senza giudizio, asettico e solo apparentemente vitale. E rispetto ad altre opere di Coppola, dei periodi precedenti, l’ansia e l’angoscia si sono attenuate, c’è un freddo vorticare che sottilmente nella sua impassibilità e necessità affascina, attrae, nello stesso multiplicarsi e complicarsi delle visioni, degli occhi, che a nugoli, irrompono meccanici verso lo sguardo vivo ed emozionato, un po’ incantato, sorpreso e timoroso di chi guarda. L’umano è al di qua della tela: di fronte una natura che non ha più nulla di naturale, come la intendiamo sulla terra, sotto il cielo, ma è piuttosto stellare, siderale, precedente alla creazione dell’uomo, semplicemente è estranea ad esso e lo ignora. Anche questo vespaio di obbiettivi, di lenti, di occhi di vetro che sembrano guardarci, registrare le nostre immagini in realtà sembrano oltrepassarci, mirare ad altro, non vedere nulla, perché non cercano, non hanno curiosità, non hanno sentimenti se non un impulso coercitivo ad andare, ad errare nel vuoto. Ossimoro di uno sguardo cieco, di un occhio che non vede, non registra perché non ha luogo per memorizzare, non ha possibilità di confronti, perché senza cronologia, senza possibilità di scandire il tempo, a partire dai battiti del cuore.
Dal punto di vista pittorico Coppola è sempre più libero nella sperimentazione di tecniche manipolate e mescolate, di cromie ricercate facendole affiorare da un profondo intimo, come è tipico della sua pittura che nasce da una dimensione psichica individuale, qui pacificata e distesa a fingere mondi in evoluzione, spazi infiniti e moltiplicati, oltre ogni immaginazione euclidea, in un costante relativismo di materia e di essenza, con leggi fisiche dettate dalla fantasia e non dalla necessità, con evidenti citazioni del futurismo, ma non ignorando anche certi esiti del surrealismo e dello spazialismo.
Ossimoro perché mai come in queste opere si è sentita la voce di Coppola cantare, sono musica infatti realizzate in pittura, l’armonia circola in ogni quadro ed è ciò che raffrena l’angoscia, quasi la raggela, ciò che toglie timore: sono musica dipinta o pittura trasformata in musica, come si preferisca. Un ritmo sottile scaturisce da queste sfere che sono pianeti occhiuti, con la dolcezza di suoni misteriosi dei cieli galileiani. Musica interna alla materia, collegata ai moti di rotazione e rivoluzione, a quel divenire imprevedibile eppure così eternamente scontato. Musica così segreta perché in questi cieli manca l’aria e quindi manca la possibilità di diffondere i ritmi e le armonie, che pure esistono e risuonano in noi, come se li avessimo potuti aver colti una volta e non li abbiamo più scordati. L’essenzialità e la purezza della visione sono la garanzia che il nostro occhio coglie un’essenza altrimenti invisibile e il nostro orecchio ode musiche celestiali.
Sono il prezzo ed insieme la conquista che raggiunge Mauro Coppola in questa sospensione mirabile per l’incanto, per il lieve stupore infantile che provoca, non tanto per la magnificenza, ma perché inaspettata come l’arrivo di una grande nave. Questo ruotare di pianeti per Coppola rappresenta il Rex delle nostalgie felliniane. C’è il senso dell’inaspettato, dell’improvviso che si concretizza, stordisce e attrae per la sua incomprensibilità, per la sua vastità indefinibile. È come una frattura che incrina il reale e sappiamo che se non cogliamo totalmente il momento immergendoci in lui, tra un attimo, sparirà e non avremo altre occasioni. Coppola come profeta di cieli disumani con l’armonia della musica che solo l’uomo con il suo sguardo incantato può loro donare. Per sempre.

Parma, nei giorni di una breve estate d'inverno 2011
MARZIO DALL’ACQUA
Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma

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ARMANDO GINESI

Il sentimento del colore

Dall’Impressionismo – che è il nodo centrale da cui sono derivati i pressoché infiniti rami dell’arte moderna – sviluppatosi in Francia tra il 1867 e il 1880, si sono staccate tre costole: il Neo-impressionismo (più conosciuto come Pointellisme e, in Italia, come Divisionismo), il Cubismo, l’Espressionismo.
Il primo ha accentuato la rilevanza che l’Impressionismo aveva già dato alla retina come mezzo di registrazione della realtà dinamica, figlia della cultura urbana e industriale, e che aveva dovuto annotare le impressioni da essa provenienti le quali andavano ad interessare principalmente il senso della vista. Tale accentuazione aveva fatto convergere l’interesse dei pittori sui meccanismi di formazione dell’immagine e della sua registrazione da parte dell’occhio, anche sotto la spinta della diffusione delle teorie ottiche.
Il secondo indirizzo – il Cubismo – almeno nella sua prima fase analitica –  ha teorizzato un’espressività che sottoponesse la realtà ad una analisi il più possibile razionale e matematica  in grado di squadernare le immagini sul piano per arrivare a coglierne simultaneamente la verità geometrica.
Il terzo, infine, l’Espressionismo, recuperando la dimensione romantica che aveva preceduto l’Impressionismo nonché le linee di sviluppo dei vari spiritualismi e simbolismi coevi, ha al contrario sottolineato l’importanza fondamentale, nel fare arte, delle emozioni, sollecitando gli artisti ad introdurre ogni immagine nell’intimo della propria anima per restituirla bagnata dagli umori emotivi. Di questa terza modalità artistica va detto e precisato che, quale modo di essere e di sentire, essa precede la  sua stessa nascita storica (che va prefigurata dal Fauvismo francese del 1904-5 e fissata poi con l’attività creativa tedesca del Die Brücke (Il Ponte) dal 1905 al 1913 e dal Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro) dal 1909 al 1912 circa). L’atteggiamento spirituale dell’Espressionismo, in sostanza, precede il movimento propriamente detto (se ne trovano tracce ripetute in varie epoche storiche a partire da quelle arcaiche) ogni volta che qualche autore o qualche scuola abbia ritenuto importante far nascere la propria espressività dall’esperienza emozionale e spirituale del reale. Sotto il profilo stilistico questo modo di sentire si manifesta nella forte accentuazione cromatica, nell’incisività del segno, nell’assunzione della materia quale elemento forte di espressività.
Le modalità espressionistiche di una narrazione (visiva, letteraria, musicale e quant’altro) hanno dunque, come già detto, preceduto la vita del movimento a cui è stato dato il nome agli inizi del Novecento, negli anni in cui è principiato il clima avanguardistico, ma l’hanno anche proseguita oltre la sua fine. Sicché pure nel secondo dopoguerra (con l’Espressionismo astratto, per esempio, altrimenti detto Informale), oppure alla fine del decennio Settanta del XX secolo (con la Transavanguardia italiana o con il Selvaggismo tedesco), tale atteggiamento spirituale e culturale ha  continuato a produrre frutti. Ed ancora oggi lo fa.
La premessa, di natura storica, ci è sembrata utile perché, dopo aver visto le recenti opere pittoriche di Mauro Coppola (nato a Napoli, operante a Ferrara) non abbiamo potuto fare a meno di ripensare all’Espressionismo come ad uno stato dell’anima che non finirà mai di produrre esiti. L’artista in questione muove dall’osservazione dei dati naturali (il paesaggio innanzi tutto) che tuffa all’interno di quel fiume lavico che gli scorre dentro e tende a scomporli, questi dati, anzi a deformarli, come sotto la pressione di una potente, incontenibile, energia magmatica.
Ecco, la deformazione, è una delle connotazioni proprie dell’espressività espressionistica. Come ha notato Mario De Micheli l’espressionista preme “sulla realtà perché da essa ne sgorghi il latente segreto. In questa premere è l’origine tipica della deformazione espressionista che si rifà praticamente a Vincent Van Gogh e ad Edvard Munch”. Le parole del critico scomparso sono il distillato di quanto detto da Kasimir Edschmid in una celebre conferenza del 1917 contro l’arte del colpo d’occhio (quella impressionista e quella neo-impressionista, ma in qualche modo anche quella cubista) che non è riuscita a cogliere mai “l’essenza degli oggetti, il loro ultimo significato”, perché “il lampo della creazione li aveva illuminati soltanto per un attimo”. Mentre invece dobbiamo costruire “noi la realtà, trovare il senso dell’oggetto, non appagarci del fatto supposto, immaginato o annotato […]. L’artista espressionista trasfigura così tutto lo spazio. Egli non guarda: vede; non racconta: vive; non riproduce: crea; non trova: cerca”.
A noi pare che proprio questa sia la chiave interpretativa giusta per leggere le opere pittoriche recenti di Mauro Coppola che mettono in evidenza una personalità complessa ma spasmodicamente tesa verso una radicale e pregnante ermeneutica del reale al fine di rendere palesi i contenuti profondi – e per certi versi misteriosi – dell’anima. Anche della realtà egli sembra voler rintracciare lo spirito e decodificarlo per farne uscire una verità  ex natura rerum che lo conduca all’identificazione con la cosa medesima, ad essere e sentirsi parte della stessa.
Il colore che Coppola usa è forte, diretto, autentico. Grida talora, ma Hermann Bahr aveva scritto nel 1916, sempre a proposito dell’Espressionismo: “Ed ecco urlare la disperazione: l’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito”, per poi proseguire: “Ecco l’espressionista riaprire all’uomo la bocca: fin troppo ha ascoltata tacendo, l’uomo: ora vuole che lo spirito risponda”. Sembra leggere Johann Wolfgang Goethe quando afferma: “L’orecchio è muto, la bocca è sorda, ma l’occhio sente e parla”.
L’occhio di Coppola – che è una specie di periscopio dell’anima – sente e parla. Con un colore soprattutto che il suo pennello e la sua spatola trasformano anche in segno e in forma. Un colore intriso di sentimento. Oppure quando tende a superarla, la forma, in direzione di soluzioni astratte che sono la naturale conseguenza di una deformazione spinta sempre più in avanti. Certe sue opere, infatti, sono astratto-informali di sapore materico, quindi collocabili all’interno di una ipotesi di quell’ “Espressionismo astratto” di cui s’è detto sopra.
Poiché abbiamo fatto cenno a termini come “lava”, “magma” e via dicendo, ci pare che la pittura di Coppola possa essere definita anche una forma di esplosione dalla quale scaturisce un’energia capace di dinamizzare lo spazio ideale dentro cui si posizionano le  immagini: uno spazio però che tende a superare i propri confini, in direzione di quell’infinito di cui Giacomo Leopardi ha detto, con i suoi mirabili versi, tutto quello che era possibile dire.

Maggio 2010
ARMANDO GINESI

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RANIERI VARESE

Mauro Coppola nella riga di autopresentazione che può sembrare secca ma sincera notizia biografica, tende a depistare lo spettatore allo stesso modo in cui si prova a farlo con i dipinti.
Dipinge sicuramente per ‘piacere’: il suo, il nostro?, forse; ma si può far emergere anche la domanda ‘per piacere a chi?’ che non è impropria o assente ma è prevista o voluta dall’Autore.
Allora iniziano a trovare una spiegazione i diversi modi di fare pittura, di costruire un’immagine e spazio che il pittore propone in questa che è una stretta e forte selezione da una produzione molto più larga.
Anche qui bisogna fare attenzione: le opere presentate indicano dei modi, parrebbe tutti i modi, nei quali si svolge l’operare figurativo di Coppola.
Non è vero, la scelta ha eliminato dei momenti che sono nella storia di questo artista, che fanno parte del suo percorso.
Lo ha fatto nello sforzo di presentare in maniera unitaria una personalità che vuole sia percepita come organicamente complessa e pronta, sul piano figurativo, a molte alternative, senza rinunciare ad una coerenza che non sta nello scambio continuo tra il figurativo e informale.
L’autodidatta vuole, con questa dichiarazione, nascondere la cultura figurativa alla quale fa riferimento.
Si presenta come un ‘ingenuo’ quando tale assolutamente non è.
Bisogna ricordare allora, non i prestiti, ma i riferimenti, spesso i lati, a un immagine sempre costruita, si pensi, ad esempio alla serie sull’entropia, che non è rinuncia al tema ma lo riduce a forme di colore in movimento.
Vi sono indicazioni più esplicite come quelle verso Matisse, Van Gogh, Gauguin, Matta, Morandi, Remo Brindisi o verso forme di una figuratività ottocentesca e accademica, come accade nel Ritratto Femminile.
L’angelo dell’Apocalisse diviene momento intermedio che rappresenta la tensione del fare, l’impegno di un pittore vero che non può essere confuso con i tanti che dedicano all’immagine solo il proprio ozio e disimpegno.

Ferrara, settembre 2007
RANIERI VARESE
Professore Ordinario di Storia dell’Arte Moderna
Presso l’Università degli Studi di Ferrara

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